Fa un poco strano leggere il libro su Don Milani e trovare delle atmosfere cupe, prive di colori, quasi una cappa pesante che offusca la vista. Chi conosce la storia dei ragazzi di Barbiana ha respirato la gioia e l’entusiasmo di quella esperienza. E invece è proprio il buio la chiave narrativa scelta da Fabrizio Silei e Simone Massi (un connubio autoriale strepitoso!) per aprire voci e sguardi sulla monotonia dei giorni di lavoro, sulla pesantezza dell’aratro nella terra, sulle sveglie nell’alba ovattata, “e ricomincia lentamente a segnare il solco, da dove si é interrotto il giorno prima, avanti e indietro”.
Che meraviglia le prime tavole dense di concretezza, fatiche, sonno, sguardi “adulti” in bambini che della vita senza dubbio hanno già conosciuto molto, e certamente non la parte migliore.
Mi scuote senza dire nulla, scuote i miei fratelli avvinghiati a me.
È ora di alzarsi.
Ma il buio non è solo quello della pesantezza fisica, è il buio della mente, dell’ignoranza che permette di essere presi in giro dal padrone quando, per l’ennesima volta, con accanto il proprio figlio vestito a festa, gli si chiede come mai ancora non arrivi l’energia elettrica. E quella lettera, che il signor conte e il signor avvocato porgono, lui, contadino analfabeta, proprio non riesce a decifrare: conterrà davvero la richiesta di energia elettrica?
Come reagire?
Non con la passività, nemmeno con la violenza. Il padre del giovane ragazzino, il giovane protagonista a cui Silei affida la voce narrante, lo manda dal prete.
Senza dire nulla mi ha preso per mano e mi ha trascinato con sé.
Dopo un’ora che camminavamo gli ho detto: “Ma dove andiamo?”
“Ti porto dal prete, in montagna!”
“Che prete? Quale prete?” e mi sono fermato.
“Dal prete matto!” mi ha spiegato. “Il priore di Barbiana, quello che insegna a leggere e scrivere ai figli dei contadini!”
“Ma io non ci voglio andare! Non mi piace di leggere e scrivere!” ho protestato.
E lui mi ha mollato uno schiaffo che ancora mi bruciano sulla guancia le cinque dita.
Inizia così il viaggio metaforico dal buio alla luce, dall’ignoranza alla conoscenza, dalla debolezza al riscatto. Incontriamo Don Milani, un prete “fissato con le lettere e con le parole” con quel sorriso mesto e diretto, di chi sa come trattare chi a scuola proprio non vuole andare:
Ho incrociato le braccia e ho detto: “Io non voglio né leggere, né scrivere!”
“Meno male!” ha detto il prete. “Perché se volevi leggere e scrivere, oggi ti andava male perché noi… oggi si impara a nuotare!”
Il buio ci accompagna ancora, sempre più illuminato dal bianco. Sfogliando le pagine viene quasi da socchiudere gli occhi per scorgere meglio i contorni tra i segni bianchi sul pesante sfondo nero, quasi righe di un quaderno (geniale!). Una tecnica che parrebbe quasi pensata appositamente, ma sappiamo non essere così: quelle specie di incisioni a scavare su un fondo di pastelli a olio sono la cifra stilistica di Simone Massi. Graffi bianchi che lentamente tolgono il nero rivelando forme e figure. Don Milani di nero deve averne graffiato molto, per far emergere uomini e pensieri – “invece che dirti lui le cose a te, te le faceva dire te a lui. E così dicevi delle cose che non sapevi di sapere. Si chiama pensare”.
In un racconto sempre equilibrato, e piuttosto commovente, Fabrizio Silei tiene saldo il timone della narrazione, ovvero il punto di vista del ragazzino protagonista. Anche mentre si ripercorrono le tappe fondamentali dell’esperienza di Barbiana – le intense conversazioni sulla guerra, sulla coscienza etica e civile, gli incontri con i giornalisti, le numerose lettere scritte insieme fino alle famose “Lettere a una professoressa”, il processo a don Milani e infine la sua morte -. Mai si avverte una finzione forzata o una esaltazione biografica della figura del priore, sempre e solo l’entusiasmo e l’umanità dei bambini.
Don Milani e la sua famiglia entrarono nella chiesa cattolica ad evitare persecuzioni, essendo la madre di Lorenzo Alice Weyss, di origine ebraica, come altri membri più vecchi della famiglia, vivi o defunti. Quindi don Milani si dichiarava non a caso ” rabbino e sacerdote” nelle sue “lettere”; in tutto ciò egli fu unico e irripetibile, e questo è il suo fascino sociospirituale…
Quando si parla di don Milani si deve sempre pensare che viveva il Vangelo da ebreo-cristiano, in quanto perseguitato insieme alla famiglia dalle leggi razziste del ’38 e quindi “prestatosi” alla chiesa cattolica, per ricalcarsi uno spazio ebraico e cristiano, come era alle origini del messaggio… un messaggio valido per ogni uomo, al di là delle fedi religiose e delle culture…