Il romanzo racconta uno spaccato di infanzia tra i rom in Slovenia, ma limitarsi a questo non renderebbe giustizia alle molte sfumature che il libro accoglie, con delicatezza e sguardo sottile. Le infanzie sono molte in realtà, sia all’interno della famiglia rom allargata di Kebarie, sia all’interno della sua classe.
Il filo rosso della narrazione è il difficile cammino di Kedi verso una crescita che è fatta di inciampi, di sogni infranti, incontri e scontri, ma anche una strenua resistenza ad andare avanti, comunque, con dignità e fierezza.
A scandire le pagine e le giornate, la vita a casa e la vita a scuola.
A una scrittura accogliente, pulita ed espressiva si accompagnano temi alquanto densi per sensibilità sociale. Povertà, miseria, ingiustizie, frustrazioni, abbandoni, razzismo, lacrime, delusioni. Sembra non mancare nulla mentre tutto questo investe direttamente i bambini e le bambine, sia come vittime che come perpetuatori.
E’ un romanzo in cui emerge “la realtà delle cose” – la definirei così quell’asprezza propria di certe esistenze. Un’asprezza che forse a noi lettori apparirà presto evidente, mentre a Kebarie si svelerà lentamente per i tentativi di nascondimento ad opera degli adulti che intrecciano bugie su bugie a protezione della piccola.
Kedi è un personaggio cui ci si affeziona e sono certa che ognuno di noi, soprattutto se insegnante o educatore, troverà in Kedi segni di altri bambini incontrati. Pare di vederla, mentre balla sulla sedia in classe, scappa dal bagno, non riesce a star ferma, fa sbuffi e linguacce, ribelle, ma ritratta in modo credibile.
C’è anche tanta normalità e universalità: dettagli di gesti, parole, sentimenti. Ed è quello che fa sì che, ne sono certa, questa narrazione possa generare empatia e a tratti identificazione.
Altro aspetto che mi ha piacevolmente colpita è la mutazione dei punti di vista. La pluralità di sguardi, su di sé, sugli altri e su come dovrebbero andare le cose, è il sottile nervo sul quale poggia l’evolversi della narrazione. Ogni sguardo è certo della propria unica legittimità ad esistere, nessun personaggio del romanzo è esente da questa visione, nemmeno Kebarie, eppure, pian piano, nell’intrecciarsi delle vicende, grazie anche a Kedi che ama scombinare le carte in tavola, gli sguardi si muovono e, più o meno percettibilmente, iniziano ad ammettere visioni differenti.
Infine, le figure femminili, decisamente centrali e significative. Non solo Kedi, ma anche la mamma, la nonna e la maestra, ognuna con le proprie luci e ombre, ognuna incastrata nel proprio ruolo sociale, ognuna specchio e voce di una differente identità femminile.
Il nastro rosso è un libro che definirei agrodolce, agro perché quella “realtà delle cose” di cui prima, dolce perché questa realtà è popolata anche di affetti e soprattutto sogni, ciò che tutto muove in Kebarie.
Lo proporrei in lettura condivisa o autonoma dagli 8 anni, perfetto tra gli 8 e i 10 anni.
P.S. Utile l’apparato iniziale su come si pronunciano correttamente le parole romanès.
P.S.S. Unica nota stonata sono a mio avviso le illustrazioni che, con tratto leggero, compaiono di tanto in tanto: troppo leggiadre, infantili per una storia come questa. Non sono riuscita a trovarci un senso.
Lascia un commento