Le parole di Davide Calì danno voce a uno di quei bambini che, insieme al fratello, dal sud Italia fu accolto per due anni in una famiglia emiliana, in“alta Italia”.
Del protagonista e voce narrante non sappiamo il nome, come nemmeno quello del fratello, una scelta che mi sembra rimandare alla dimensione collettiva di quell’esperienza (ripeto: 70.000 bambini!). Di questi due fratelli sappiamo poco, solo che hanno vissuto la guerra e che dopo “a casa non c’era abbastanza da mangiare per tutti” anche se “di essere poveri non lo avevamo mai saputo”. Già, una drammatica normalità per quei bambini cresciuti nella Guerra…
Poi arriva la proposta di accoglienza delle famiglie del Nord, e con essa anche il monito del prete a instillare profondamente nella mente dei bambini l’immaginario dei “comunisti che mangiavano i bambini” o “ci facevano il sapone”.
Giunge comunque il momento della partenza, e con essa i saluti commoventi in stazione, il lunghissimo viaggio in treno fino ad attraversare “una pianura lunga, infinita” per arrivare in una città che sappiamo solo essere emiliana. All’arrivo subito un colpo al cuore quando i due fratelli vengono separati tra due diverse famiglie che, per fortuna, abitano una di fronte all’altra (scopriremo poi che le due madri sono sorelle). Il profondo significato dell’accoglienza si intuisce fin da subito: un’accoglienza che sfama sì i bambini ma in qualche modo li forma a una diversa esperienza di vita.
Io il bagno non volevo farlo. Quando vidi la vasca pensai che il prete aveva ragione, che in alta Italia con i bambini ci facevano il sapone!
Mio fratello invece, quando gli presero le misure per il vestito, pensò che fossero per la pentola.
Più tardi, la sera, quando ci misero davanti al fuoco del caminetto io e mio fratello capimmo che il motivo per cui non ci avevano usato per fare il sapone era che preferivano mangiarci.
Ci abbracciammo stretti stretti, mentre portavano il pentolone dove cuocerci.
Ma nel pentolone c’era già qualcosa.
Inizia dunque un secondo lungo viaggio, durato ben due anni, in cui i due fratelli scoprono che “in alta Italia era tutto diverso”, a partire dalle cose più semplici e quotidiane (ma non scontate!): il cibo tre volte al giorno (con la cioccolata calda e i tortellini), le lenzuola e la cameretta tutta per loro, il pane fatto in casa e cotto nel forno comune…
Ma c’è molto di più, che il libro evoca, soprattutto nelle illustrazioni, invitando il lettore a immaginare l’indescrivibile: c’è una madre vedova di guerra che ha vissuto la durezza più spietata della vita e pure non perde il coraggio e guarda avanti; c’è una nuova famiglia che cresce; ci sono due donne che vengono chiamate “signora” e poi “mamma Ilde” e “mamma Paola”; c’è un legame indissolubile che strappa il cuore quando giunge di nuovo il treno a riportare i bambini verso Sud; ci sono partenze e ritorni che per noi sono solo parole ma per quelle famiglie chissà che cosa sono stati; c’è una nuova quotidianità al Sud che è vissuta con occhi diversi perché ora si è un po’ stranieri a casa propria; c’è la consapevolezza, ora sì, della miseria in cui si vive; e c’è un pacco di tortellini che per lungo tempo viene spedito ogni Natale, dal Nord verso il Sud.
Ho molto apprezzato come la trama, di per sé toccante, sia ben compensata da una certa compostezza nella narrazione sia testuale che visuale. Non deve essere stato facile mantenere e nello stesso tempo “asciugare” la grande carica emotiva che questa storia portava con sé.
Le parole di Calì sono estremamente misurate nell’accennare i sentimenti senza renderli eccessivi; sono parole che raccontano con semplicità e schiettezza restituendo la freschezza dello sguardo dei bambini.
Allo stesso modo, anche le illustrazioni di Isabella Labate realizzate a grafite comunicano solidità e pacatezza. Costruiscono una narrazione di atmosfera e di espressività, trascinando il lettore esattamente dentro ciò che i bambini e gli altri personaggi stanno vivendo, anche con un pizzico di umorismo (spettacolare la scena dei bambini a tavola, pare quasi di assaporare e gustare con goduria il pasto assieme a loro!). C’è molto garbo e delicatezza nei disegni, quasi un senso di rispetto nel raccontare queste vite.
È interessante anche notare come le illustrazioni riescano a comunicare non solo la profonda ricaduta individuale di quell’esperienza (con un’attenzione ai volti, agli sguardi, ai gesti) ma anche la sua portata collettiva (con ampie inquadrature sul paese, sul viaggio, sulla folla e sulle situazioni familiari). Il taglio delle inquadrature, la cura per i dettagli, la straordinaria resa espressiva di volti e corpi, le tonalità di bianco, nero e grigio, sono tutti elementi che caratterizzano la parte visiva di questo libro rendendolo un vero e proprio documento storico narrativo e vivo.
Tre in tutto è un libro che racconta molto ma lascia anche un profondo spazio di pensiero, di immaginazione e curiosità nel lettore.
Come non rabbrividire, ad esempio, pensando che tutto ciò è accaduto davvero; come non immaginarsi il meravigliato stupore di quei piccoli occhi e la paura e la nostalgia nei loro cuori; come non commuoversi pensando allo shock culturale vissuto da quei bambini; come non pensare a tutto il non scritto e non detto di questa storia in questo libro, ai pensieri e al dolore di quelle madri del Sud o alle voci di quelle del Nord e dei loro familiari…
Un bello spazio bianco che può essere approfondito guardando il documentario de “Il tempo e la storia” a cura di Michela Guberti con Bruno Madia per Rai Storia, oppure il documentario “Pasta nera” di Alessandro Piva.
E ora, la copertina raccontata da Isabella Labate, che ringrazio infinitamente per aver speso un po’ del suo tempo nel condividere con me alcuni retroscena del suo lavoro di illustratrice per questo libro!
La copertina l’ho immaginata nel momento in cui Fausta Orecchio mi proponeva il progetto e mi spiegava il titolo. Tre madri pilastro. La madre al centro ha abiti neri per molti motivi. Innanzitutto per coerenza storica: è una madre vedova di un paesino del meridione, e poi per un bisogno grafico di creare uno sfondo scuro sul quale vanno ad aprirsi i titoli e i nomi degli autori, avendo un passato di grafico editoriale, non posso non tener conto di quelle esigenze.
Io qui inizio a raccontare la mia storia, quella che nel testo non c’è, ma che ci sta. Le madri ai fianchi sono rappresentate a metà, per chiarire che sono mamme supplenti. Ognuna veste secondo la propria personalità, e lo sguardo è rivolto verso i bambini. La mamma naturale, al centro, guarda avanti. Guarda al futuro, è talmente disperata che non può permettersi di cedere al sentimento di tenere i figli con sé: deve lasciarli andare, per ben due anni, per poterli salvare. Dio solo sa cosa ha vissuto. La fame, sicuramente, si vede dalle mani ossute nelle illustrazioni interne, i bombardamenti, i tedeschi prima, probabilmente gli abusi degli alleati, la malaria, le strade minate. Deve guardare avanti.
Le mamme ai fianchi sono due sorelle emiliane sane e allegre, una sposata e con un figlio, l’altra single. Single, per me, perché il moroso non è tornato dalla guerra. La sorella ė simile di aspetto, un poco più trasandata, meno sorridente ma molto dolce e paziente. I bambini stanno in mezzo, uno guarda la madre, l’altro guarda il lettore e sorride, lo invita a seguirli, a conoscere la loro storia.
Uno dei più bei libri da leggere ai bambini sull’argomento, usato anche per un incontro di catechismo con ragazzini di 11/ 12 anni, ai quali è servito per fare delle bellissime riflessioni.
Concordo!
Segnalo su questa bellissima e significativa vicenda anche questo documentario (di cui alcuni stralci sono visibili durante la trasmissione rai) https://www.openddb.it/film/gli-occhi-piu-azzurri/
Grazie!