Andrea Molesini sceglie come protagonista e voce narrante un bambino di 10 anni, Pietro, e attraverso la scrittura dà espressione al suo punto di vista e mondo interiore in modo luminoso e vivo. Le parole di Pietro accompagnano il lettore con delicatezza, trasporto e un pizzico di divertente ingenuità, nel far spazio a piccoli grandi quesiti esistenziali.
Pietro, come l’amico Dario, è orfano e vive in un convento su un’isola della laguna veneta, insieme a frati e suore, che lui osserva con ingenua curiosità “… perché i frati sono un po’ tocchi e dicono le preghiere anche di notte perché credono che di notte valgono di più o forse perché Dio di notte ha meno da fare e allora ci sente meglio.”
L’amico Dario è ebreo, così come le sorelle Maurizia e Ada, due donne a cui Pietro è molto legato, raccontano sempre storie strane e camminano come fossero un’unica entità – Mauriziada, le chiama Pietro.
A causa di una delazione ai tedeschi – quelli dalla “lingua porcospina” come li chiama Pietro – viene organizzata una fuga notturna dei bambini insieme a una bizzarra compagnia: Mauriziada, frate Ernesto, Suor Elvira, bellissima custode di un grande mistero, Lirlandese, il Donnola…
Tutti personaggi ben caratterizzati e bellissimi; molti di essi incontreranno la morte, a sopravvivere saranno solo i bambini e la suora che troveranno aiuto in un disertore tedesco, personaggio carismatico, ambiguo e determinante nell’intero evolversi della storia.
Siamo in un romanzo in cui la tragedia non risparmia nessuno e si tinge di diversi colori: c’è la rabbia, la cattiveria, il tentato stupro, il tradimento, e poi c’è la paura che accompagna sempre i passi del gruppetto.
A me al principio la paura mi fa sete e mi fa lo stomaco piccolo, ma poi aiuta il sonno perché mi fa tutto stanco, che sento stanchi anche i capelli che di solito non si stancano mai, come le unghie che non smettono mai di crescere. E poi la paura quando è passata è una cosa bella da ricordare. Invece ci sono delle cose belle come il pane e il formaggio, che quando provi a ricordartele non dicono niente, si vede che i ricordi hanno un cervello tutto speciale.
E poi c’è la morte, non quella generica della Guerra ma quella che spezza legami di affetto e amicizia; Pietro racconta l’esperienza della perdita della madre mentre incontra altre perdite nel corso del romanzo, per questo la morte diventa per lui oggetto di ripetuti pensieri.
Perché la morte è come la febbre, quando muore uno che ti vuole bene anche tu hai un po’ della sua morte, anche se non la misuri con il termometro sotto l’ascella. Però io penso anche che adesso non me ne importa perché io sono vivo e anche quando mia mamma era nella cassa io l’ho capito che bisogna non importarcene se no sei fregato come lo stoccafisso appeso che poi ci fanno il baccalà.
Nella disperata fuga, tra imprevisti, ostacoli e incertezze, il gruppo attraversa diversi ambienti nei quali la natura svolge un ruolo determinante e ambivalente – il bosco, il mare, la montagna, così come la notte e il buio, si fanno ora minaccia ostile, ora presenza salvifica quando nascondono e celano allo sguardo.
E la stessa ambivalenza, che rende tutto incerto, connota l’incontro con l’altro, ossia le diverse persone nelle quali il gruppetto si imbatte e che si pongono in uno spazio grigio di mezzo tra il bene (i personaggi positivi e protettivi della suora e del disertore) e i cattivi (i tedeschi e i fascisti). Di chi fidarsi? Chi è chi?
Poi c’è Dario, che per Pietro non è solo amico e compagno fraterno, vera sicurezza nella fuga. Dario rappresenta la complementarietà di Pietro, un diverso modo di pensare e di approcciarsi alla vita, con lui Pietro non smette di confrontarsi in dialoghi silenziosi in cui emerge un bambino introverso e silenzioso che ama i numeri e la matematica, e crede solo a ciò che può essere contato.
A me mi piace Dario perché non parla mai, lui pensa che le parole è meglio tenerle dentro lo stomaco, dove stanno calde e non fanno danni.
Pietro è invece chiacchierone, si considera grande – “quando mi danno dell’ino io mi arrabbio. Ino un cavolo! Io sono io e di ino non ci ho proprio niente” – ha un’intelligenza intuitiva e coglie e comprende cose molto “grandi”, come la morte, l’amore, il sesso, cose che gli adulti vorrebbero celare ai piccoli ma che Pietro, con il suo sguardo disincantato e attento, smaschera puntualmente.
La cosa bella di avere dieci anni è che i grandi pensano che i tuoi pensieri sono un poco scemi, così puoi pensare la vera verità tanto sai che non ci badano.
Una delle più belle frasi che mi sono segnata condensa tutto il pensiero di Pietro, un pensiero che guida il suo mondo interiore che il lettore attraverso le sue parole:
… credo che a loro modo i bambini – quelli intelligenti – siano tutti degli infaticabili cercatori di senso. Magari si restasse più a lungo con l’energia che hanno loro: l’anima che smette di fare domande è vecchia e brutta, sempre.
In definitiva, forse, ciò che rende un libro un buon libro non è (solo) cosa accade ma come viene raccontato ciò che accade. E il come, nel libro di Molesini, è estremamente interessante e bello. La realtà viene raccontata da Pietro, molto più di semplice voce narrante: è occhi, pensieri, emozioni e sentimenti. Lo stile di scrittura segue e si adatta al mondo di Pietro, in una specie di flusso di coscienza che tralascia la punteggiatura e predilige metafore e similitudini piene di poesia e concretezza, di semplicità e incanto che rimandano al mondo contadino e al pensiero infantile.
E’ una scrittura che crea immagini vivide, di rumori e silenzi, poi riempiti di domande, moltissime domande che nella mente di Pietro costruiscono fervidamente ipotesi su ciò che gli accade e sulla vita. Seguire i suoi pensieri apre anche il nostro sguardo e la nostra mente, nel continuo stupore. Le parole di Pietro sono anche piuttosto esilaranti e ci lasciano spesso con il sorriso sulle labbra: l’ingenuità del suo sguardo innesca nel lettore un effetto di divertito straniamento, soprattutto nella contrapposizione con la tragicità degli avvenimenti esterni.
Quello di Pietro non è l’unico sguardo narrativo scelto da Molesini. Lo scrittore infatti sceglie anche un’altra prospettiva attraverso la quale raccontarci gli accadimenti. Di tanto in tanto si affacciano alcune brevi pagine di diario scritte da Suor Elvira (di cui non vi svelerò nulla per non rovinarvi la lettura), che aggiunge una prospettiva femminile e adulta davvero molto interessante.
La primavera del lupo è stata per me una bella e inaspettata scoperta, un romanzo che consiglierei senza dubbio agli adulti e ai ragazzi, un perfetto libro cross over.
Condivido in pieno l’analisi puntuale e profonda del libro che, anche a me, è piaciuto moltissimo
Grazie per il tuo commento, è un libro che merita davvero di essere conosciuto!