È un corpo. Leggero, fluttuante nell’acqua. Abbandonato in profondità che gli hanno tolto la vita, negato una degna sepoltura, oscurato il nome, l’identità, i sogni. Un futuro.
Inizia così, in una straziante silenziosa doppia pagina, l’albo Mediterraneo. Un grido muto, catturato e messo a tacere dal mare.
E un’unica frase, ad apertura del libro
Dopo aver finito di annegare,
il suo corpo scivolava
lentamente
verso il fondo,
lì dove i pesci,
lo aspettavano.
In fondo, questa faccenda dei migranti, è tutta una questione di corpi. Corpi in fuga, corpi torturati, corpi feriti, corpi annegati, corpi salvati e curati, corpi da sfamare, corpi impostori, corpi che lavorano, corpi da rimandare a casa loro.
Solo corpi (di questi corpi senza nome ho già scritto in un post molto importante per me).
E Armin Greder lo sa bene perché è proprio attorno questa fisicità che ordisce il suo racconto, addentrandosi in una danza di vita e morte.
Il corpo, nella seconda tavola, è un corpo anche mangiato, dai pesci, quegli stessi pesci che, nella terza tavola vengono catturati da reti di pescatori e poi proposti al mercato. Per essere consumati sulle tavole di altri uomini.
Potrebbe sembrare una scelta troppo macabra, ma è questa l’onestà di cui parlavo. Questo avviene e questo, come ci ricorda Alessandro Leogrande in una interessante postfazione all’albo, è avvenuto. La stessa casa editrice, Orecchio Acerbo, ha precisato come Armin Greder abbia trovato la spinta creativa definitiva nelle parole di una donna, Nunziatina, che dopo l’ennesimo naufragio in mare ha deciso di non mangiare più pesce.
Il pesce infatti prosegue il suo viaggio, ci suggerisce Greder, e viene offerto a due loschi personaggi – quelli di cui spesso dimentichiamo l’esistenza – un militare (politico?) africano e un uomo bianco ben vestito (politico?). Trafficanti di armi.
E così Greder ci fa ritornare in Africa, dove quel corpo là in fondo al mare forse aveva casa. È evidente che seguiamo il tragitto delle armi, prima su un mercantile, poi chissà, un villaggio. Non sappiamo, vediamo solo case in fiamme e terrore, e poi uomini e donne in fuga, in un cammino silenzioso, sullo sfondo bianco.
Fino ad arrivare al mare che, purtroppo, spesso non lascia scampo, se non quello delle sue acque profonde che inghiottono speranze e paure.
Un racconto da pelle d’oca, narrato attraverso i disegni che qui si fanno ancor più sfuggenti e drammatici: sagome, ombre, contorni sfilacciati, colori accennati e sfumati, volti irriconoscibili.
L’espressionismo di Greder è duro, in un vortice nebuloso che, in un attimo, dal profondo del mare, proprio lì ci fa tornare.
Un libro che offre spunti di riflessione e confronto, ma soprattutto – e innanzitutto – è un gran bello schiaffo sul volto, quasi a dirci – svegliati! – osserva, guarda oltre, non solo il riflessi dell’acqua, non solo un bel pesce, non solo un corpo.
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